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Orologetta

Dovete sapere che gli orologi hanno un’anima. Dov’è l’anima degli orologi? Esattamente dov’è la vostra: ovunque e da nessuna parte.
Ora, dovete anche sapere che gli orologi hanno un genere. Ci sono orologi maschi e orologi femmina. In particolare, questa è la storia di un orologio femmina di nome Orologetta.

Nella Fabbrica degli Orologi, Orologetta era alla solita, noiosissima, lezione del professor Metro Nomo. Erano tutti seduti in precise file equidistanti tra di loro, equidistanti dal muro, dalla cattedra e da qualsiasi cosa da cui si potesse essere equidistanti. Tutti attenti ad ascoltare le ritmicissime parole di quel vecchio orologio da taschino. La lezione del giorno: i secondi.
“Il minuto secondo, più comunemente detto secondo, per ellissi del termine corretto, è un’unità di misura del tempo, una delle sette unità base del Sistema Internazionale. Il secondo è definito come la durata di 9.192.631…”. La sua voce metallica riempiva l’aria della stanza di una leggera polvere narcotica a cui sembrava essere sensibile solo la nostra Orologetta. Non che lei non fosse brava in ritmica, anzi, fino a poche settimane prima era una delle studentesse più brillanti del corso. Il problema era che, ultimamente, tutto quel battere, ticchettare e imparare, le sembrava incredibilmente inutile. Le lezioni non riuscivano più a interessarla come una volta.
Che senso aveva tutta quella precisione? Questo non li rendeva tutti dei semplici automi? Tutti allo stesso ritmo, tutti uguali e sincronizzati?
Questi, non erano certo pensieri da orologio. E di dubbi di Orologetta si ripercuotevano naturalmente sul suo rendimento scolastico. Con grande disappunto dei suoi genitori nell’ultimo mese aveva perso addirittura un millesimo di voto.
Sbuffò, facendo ciondolare il cinturino e rompendo la perfetta simmetria dell’aula.
“Signorina Orologetta! La stiamo per caso annoiando? Avanti, cosa stavo dicendo poc’anzi?”.
“Ehm, la durata dei secondi?”.
“E quanto sarebbe la durata di un secondo?”.
“Il sessantesimo di un minuto?”. L’aula scoppio in una ticchettante risata generale.

“Buon Dio! Un sessantesimo di un minuto!!!”. La catena d’oro del professore traballava dalla collera attorno alla sua figura rotonda. “9.192.631.770 periodi della radiazione corrispondente alla transizione tra due livelli iperfini dello stato fondamentale dell’atomo di cesio! Questo è un secondo!”. L’oro giallo della scocca stava assumendo una pericolosa sfumatura rossastra.
“Sì, sì, il cesio, i 9 miliardi di…”.
“Fuori dalla mia aula!”. La lancetta dei minuti tramava sotto il lampeggiante vetro di zaffiro.
Orologetta, pallida di rabbia, si precipitò nel corridoio.
A casa i suoi genitori erano disperati.
“Ci ha chiamati il tuo professore! Ci ha detto che ultimamente non sei più te stessa. Dice… dice… che è come se fossi rimasta indietro!”. Sua madre singhiozzava dalla fessura del calendario. “Lo sai cosa succede agli orologi che rimangono indietro? Vengono tacciati da orologi rotti! E vengono buttati via! Senza conoscere mai il calore del polso di un umano, o del suo petto. Guarda, segni già tre minuti di ritardo!!!”. Il liquido roteava all’interno del quadrante.
“Non dire così cara. E’ solo una fase, è giovane, tutti abbiamo sentito la voglia di perdere qualche minuto alla sua età. Vedrai, passerà”. Suo padre cercava di stringere il cinturino attorno alla moglie affranta.
“E io non voglio che passi! Mi sono stancata di tenere il tempo come voi, come il professore, come tutti! Io voglio il mio tempo!” Ruotò violentemente la rotella esterna. I minuti di ritardo divennero 15. “Voglio deciderlo io che ore sono!!!”. I suoi ingranaggi risuonavano pesantemente all’interno della cassa. Si girò e se ne andò correndo per strada il più veloce possibile.
Quando si fermò era ormai notte, anzi, erano le 21 e 57 minuti e 32 secondi se lo aveste chiesto al professor Metro Nomo, ma a Orologetta non poteva interessare di meno.
Era arrivata ormai lontana dalla Fabbrica degli Orologi, in una zona che non conosceva. La rabbia stava cominciando a diminuire, lasciando lo spazio alla tristezza.

Era così diversa dagli altri? Perché nessuno la capiva? Aveva forse idee così strane? Forse era lei quella sbagliata, forse le mancava qualche rotella. No, non era possibile, lo sentiva che non era lei in errore, che aveva il diritto di voler essere diversa, voler essere unica, di vivere la vita piuttosto che segnarne lo scorrere.
Ora ne era sicura, non sarebbe tornata a casa.
Si arrampicò su una panchina e rimase stesa a stirarsi il cinturino per lungo tempo, finché la tristezza non passò e rimase solo una nuova sensazione di libertà.
In quel momento passò di lì una ragazza. Vide la nostra Orologetta e la prese in mano, se lo girò un attimo tra le dita e infine se la mise al polso. In un primo momento il nostro piccolo orologio si spaventò moltissimo, talmente tanto che quasi si fermò. Ma quando il calore del polso della ragazza le scaldò la cassa, e quando cominciò a percepire il flebile battito del cuore di questa, le sue lancette tornarono a muoversi. In fondo, era nata per questo.
Di fronte a lei ondeggiava la faccia della sua nuova umana e, dopo poco, tutto il mondo ondeggiava, a testa in giù, davanti alla faccia del nostro piccolo orologio. Non era mai stata attaccata al braccio di un umano, e doveva ammettere che, seppur piacevole, non era un’esperienza semplice. Per fortuna aveva frequentato le lezioni di oscillazione, e sapeva come controllare quel perpetuo movimento pendolare.
Ora, quella non era stata una giornata particolare solo per Orologetta, ma lo era stata anche per la ragazza, che quindi, con la testa da un’altra parte, non si accorse che il suo nuovo orologio era di ben quindici minuti indietro. E Orologetta, tra tutto quell’arrabbiarsi, quel correre, quel rimuginare sulla vita e ora quel piacevole oscillare, si dimenticò di rimettersi a punto.
Sfortuna volle che il giorno dopo, con Orologetta ancora al polso, e con l’orario sbagliato, la ragazza arrivasse in ritardo alla sua prima, tanto attesa, lezione di yoga.
“Stupido orologio”. Sbuffò rumorosamente l’umana, lasciandosi cadere su una sedia della reception. “E ora che faccio?”.
“Può iniziare la lezione di Aikido con noi, se vuole”. Una montagna ricciuta in una sorta di accappatoio a due pezzi le stava facendo qualcosa di molto simile a un sorriso.
“Ehm, io, ehm, volevo fare yoga, c’è non credo di essere in gradi di… vede, non so neanche cosa sia l’Arikidu”.

“Aikido. Si chiama Aikido”. Sì, la montagna le stava obiettivamente sorridendo. “E’ un’altre marziale. Insegna a la padronanza di sé stessi, tramite la conoscenza della propria natura interiore. Venga, le faccio vedere”. E scivolò via, spostando i suoi centoventi chili senza il minimo attrito sul terreno.
La ragazza lo seguì.
“Qui si può cambiare, per le prime volte può usare gli abiti comuni. Ma niente gioielli, e niente orologi”. Tese la mano. Orologetta, che fino a quel momento aveva seguito la scena dal polso della ragazza rimase un attimo sospesa nel vuoto e fu accolta da due enormi mani calde.
“Lo sa che il suo orologio è indietro di 15 minuti?”.
“Sì, sì. Lo so”.
“Lo lasci così com’è, così arriverà sempre puntale alle nostre lezioni”.
Ora fu la ragazza a sorridere, e se Orologetta fosse stata ancora al suo polso, avrebbe sentito il suo battito cardiaco diventare appena più rapido.

Giacomo G.

 

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